LA CORTE MILITARE DI APPELLO 
    Nel  procedimento  a  carico  di   Zannelli   William,   nato   a
Castrovillari (Cosenza) 3 agosto 1983 (atto 556  p.1.s.a),  residente
in Spezzano Albanese (Cosenza) in via C.da Fosse del Lupo n. 5 - C.le
VFB EI, libero in seguito all'appello proposto dal  p.m.  in  data  6
novembre 2007 avverso la sentenza n. 34/07 emessa il 3  ottobre  2007
dal G.u.p. presso il Tribunale militare di Verona con la quale per il
reato di «Diserzione aggravata e truffa militare  pluriaggravata,  in
continuazione» (articoli 81 cpv. c.p.; 148 n. 2, 234 c.c. 1 e  2,  47
n. 2 c.p.m.p.) veniva dichiarato non luogo a procedere in  ordine  al
reato continuato di  diserzione  aggravata  relativo  al  periodo  di
assenza dal 30 gennaio 2006 all'11 marzo 2006 e  di  truffa  militare
pluriaggravata, perche' risulta che il fatto non sussiste. 
    La Corte, riunita in Camera  di  consiglio  nell'udienza  del  19
maggio 2008, nel procedimento penale a carico  di  Zannelli  William,
nato il 3 agosto 1983 a Castrovillari (Cosenza), imputato  del  reato
di  «diserzione  aggravata  e  truffa  militare  pluriaggravata,   in
continuazione» (artt. 81 cpv. c.p., 148 n. 2, 234, commi 1 e 2, 47 n.
2, c.p.m.p.), ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Sentito il pubblico  ministero,  che  ha  sollevato,  depositando
memoria scritta, la questione  di  legittimita'  costituzionale,  per
violazione degli articoli 3, primo comma, e 111, secondo comma  della
Costituzione, della norma contenuta nell'articolo 428 del  codice  di
procedura penale, quale modificata dall'articolo  4  della  legge  20
febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui ha soppresso il diritto  del
pubblico ministero di proporre appello avverso  la  sentenza  di  non
luogo  a  procedere;  sentito  il  difensore  dell'imputato,  che  ha
dichiarato di rimettersi alla decisione della Corte. 
                   Osserva in fatto ed in diritto 
Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    Il  presente  giudizio  di  gravame  trae  origine   dall'appello
tempestivamente presentato dalla Procura militare di  Verona  avverso
la sentenza, emessa in data 3 ottobre 2007 e depositata il successivo
16 ottobre dello stesso anno,  con  la  quale  il  G.u.p.  presso  il
Tribunale militare di Verona ha dichiarato il non luogo  a  procedere
nei confronti di Zannelli William, imputato del reato di  «diserzione
aggravata e truffa militare pluriaggravata, in continuazione», con la
formula del fatto non sussiste. 
    Nel  contesto  dell'atto  di  appello,  provvisto  di  tutti  gli
intrinseci requisiti di ammissibilita', viene sollevata la  questione
di legittimita' costituzionale  della  norma,  per  violazione  degli
articoli  3,  primo  comma  e  111,  secondo  comma   e   112   della
Costituzione, contenuta nell'articolo 428 del codice di rito  penale,
la quale, nella formulazione conseguente all'entrata in vigore  della
legge 20 febbraio 2006 -  e  segnatamente  dell'articolo  4  -  ,  ha
previsto il ricorso per  cassazione  come  unico  rimedio  contro  la
sentenza di non luogo a procedere, cosi' inderogabilmente  escludendo
la proponibilita', prima consentita, dell'appello avanti  al  giudice
di secondo grado. 
    In conformita' a quanto disposto dal codice di rito questa Corte,
ove non condividesse  le  censure  di  illegittimita'  costituzionale
prospettate dai rappresentanti dell'accusa, sia negli atti di gravame
che nella  presente  udienza,  avrebbe  a  disposizione  la  seguente
alternativa: o dichiarare la inammissibilita'  dell'impugnazione,  in
quanto  presentata  contro  provvedimento  non  appellabile;   oppure
convertire l'appello in ricorso per cassazione e trasmettere gli atti
al giudice competente al suo esame. 
    Di conseguenza appare evidente  la  rilevanza  della  prospettata
questione di legittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la
possibilita' di trattare il  procedimento  nell'ambito  del  presente
giudizio di appello e'  preclusa  proprio  della  nuova  formulazione
dell'articolo 428, di cui entrambi i  rappresentanti  della  pubblica
accusa hanno denunciato il contrasto  con  gli  articoli  3,  secondo
comma e 111, secondo comma, e 112 della Costituzione. 
Non  manifesta   infondatezza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Ritiene la  Corte  che  siano  da  condividere  i  rilievi  e  le
osservazioni contenuti negli atti di appello e ribaditi nella memoria
presentata dal rappresentante della  Procura  generale  nel  presente
giudizio camerale, a sostegno del prospettato dubbio di  legittimita'
costituzionale in ordine alla nuova  formulazione  dell'articolo  428
c.p.p. 
    In particolare e' da condividersi l'assunto che  la  nuova  norma
sui limiti oggettivi alla impugnabilita' della sentenza di non  luogo
a procedere sia in contrasto con le seguenti disposizioni della Carta
costituzionale: 
        a) il comma  1  dell'art.  3,  istitutivo  del  principio  di
eguaglianza  e   costituente   -   sub   specie   di   parametro   di
«ragionevolezza» - il termine di raffronto fondamentale ai fini della
valutazione della legittimita' costituzionale del suddetto art. 428; 
        b) il comma 2 dell'art. 111 (introdotto ex art. 1 della legge
cost. 23 novembre 1999, n. 2), contenente la norma secondo cui  «Ogni
processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni  di
parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge  ne  assicura
la ragionevole durata». 
        c) l'articolo 112, che  prescrive  la  regola  per  cui,  nel
nostro ordinamento, «Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare
l'azione penale». 
Sul contrasto con l'articolo 3 della Costituzione. 
    Il contrasto con l'articolo 3  della  Costituzione  si  evidenzia
sotto  una  duplice  prospettiva:   innanzitutto   sotto   forma   di
irragionevolezza della disciplina, in quanto essa si innesta su di un
quadro normativo che, grazie alle fondamentali sentenze  della  Corte
costituzionale n. 26 e 320 del 2007Con la sentenza n. 26 del 2007, la
Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima  -  per  contrasto
con il principio di parita' delle parti - la rimozione del potere  di
appello del pubblico ministero contro le sentenze di  proscioglimento
pronunciate nel giudizio ordinario  (rimozione  sancita  dall'art.  1
della legge n. 46 del 2006, tramite sostituzione dell'art.  593  cod.
proc. pen.): rilevando come l'asimmetria di poteri fra parte pubblica
e imputato che  ne  conseguiva  -  per  il  suo  carattere  radicale,
generalizzato  e  unilaterale  -   non   potesse   trovare   adeguata
giustificazione  nelle  rationes  che,  alla   stregua   dei   lavori
parlamentari, si collocano alla radice della riforma  (vale  a  dire:
l'asserita impossibilita' di considerare colpevole «al di la' di ogni
ragionevole dubbio» l'imputato prosciolto in primo grado;  l'esigenza
di   dare   attuazione   alle   previsioni   di   determinati    atti
internazionali;  l'opportunita'  di  evitare  che  la   sentenza   di
proscioglimento, emessa da un giudice che  -  come  quello  di  primo
grado - ha assistito alla formazione della prova nel  contraddittorio
fra le parti, venga ribaltata da altro giudice che - come  quello  di
appello - basa invece la sua decisione su una  prova  prevalentemente
scritta). Con la sentenza n. 320 del 2007,  la  Corte  ha  dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 2 della legge n. 46  del  2006,
nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, cod. proc. pen.,
esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le  sentenze
di proscioglimento emesse a seguito  di  giudizio  abbreviato.  Nella
motivazione  della  sentenza  la  Corte  ha   osservato   che   «vale
evidentemente, anche in rapporto alla norma  oggi  censurata,  quanto
preliminarmente osservato dalla citata sentenza n. 26  del  2007:  e,
cioe', che al di  sotto  dell'assimilazione  formale  delle  parti  -
"l'imputato e il pubblico  ministero  non  possono  proporre  appello
contro le sentenze di proscioglimento"» (cosi' il novellato art. 443,
comma 1, cod. proc. pen.) - detta norma racchiude «"una  dissimmetria
radicale"». A differenza dell'imputato - il quale resta abilitato  ad
appellare le sentenze che  affermino  la  sua  responsabilita'  -  il
pubblico ministero viene, infatti, totalmente privato del  simmetrico
potere di proporre doglianze  di  merito  avverso  la  pronuncia  che
disattenda  in  modo  integrale  la  pretesa  punitiva.  Menomazione,
questa, che non puo' ritenersi compensata dall'ampliamento dei motivi
del ricorso per  cassazione,  parallelamente  operato  -  peraltro  a
favore di entrambe le parti - dall'art. 8 della stessa  legge  n.  46
del 2006 (modificativo dell'art. 606,  comma  1,  cod.  proc.  pen.):
giacche' - quale che sia l'effettiva portata dei nuovi  e  piu'  ampi
casi di ricorso - il rimedio non attinge comunque alla  pienezza  del
riesame di merito, consentito dall' appello., garantisce al  pubblico
ministero il potere  di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
assoluzione pronunciate  sia  in  esito  ad  un  dibattimento  che  a
conclusione di un rito abbreviato. 
    Di  conseguenza  la  preclusione  disposta  dalla  norma  di  cui
all'articolo 428 viene a perdere  ogni  ragionevolezza  e  fondamento
giustificativo, posto  che  nega  al  rappresentante  della  pubblica
accusa, nella fondamentale fase in cui viene formulata la domanda  di
giudizio, il potere di richiedere quel completo riesame di merito che
viene allo stesso riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo. 
    Ritiene questo giudice, in particolare, che  la  norma  in  esame
costituisca un elemento di forte turbativa ed incoerenza nel contesto
della complessiva disciplina del potere di appello, in  quanto  priva
il  rappresentante  della  pubblica  accusa  della  possibilita'   di
segnalare e far correggere gli eventuali vizi della sentenza  di  non
luogo a procedere e trasforma quest'ultima in una sostanziale  pietra
tombale, che preclude ogni ulteriore confronto dialettico sul  merito
dell'accusa e  rende  possibile  il  solo  rimedio  del  ricorso  per
cassazione, i cui peculiari connotati  non  consentono  una  adeguata
disamina della totalita' dei vizi che  possono  inficiare  il  merito
della decisione. 
    Il novellato art. 428 c.p.p., nella parte in cui consente il solo
rimedio del ricorso per cassazione e non prevede piu'  l'appello  del
p.m. contro  la  sentenza  di  non  luogo  a  procedere  del  G.u.p.,
contrasta anzitutto con il parametro dell'art. 3, primo comma, Cost.,
che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale,  funge  da
limite alla discrezionalita' del  Legislatore,  facendo  si'  che  le
scelte di questi, per quanto tendenzialmente  del  tutto  libere  nei
fini, siano sindacabili sotto il profilo della ragionevolezza  (cfr.,
ex multis, Corte cost., 20 luglio 1994, n. 324). 
    Nel caso di specie non risulta soddisfatto proprio  il  requisito
della ragionevolezza, per la determinante ragione che si impedisce al
pubblico  ministero  di  coltivare  l'esercizio  dell'azione   penale
nell'ambito della sequenza procedimentale che ancora si  frappone  al
giudizio dibattimentale e gli si  impone  di  esperire  un  mezzo  di
impugnativa (il ricorso  per  cassazione)  che,  oltre  a  quanto  si
osservera' in seguito, non appare fisiologicamente  coerente  con  il
tipo di valutazione che deve sovrintendere alla decisione di rinvio a
giudizio  ed  appare  poco  adatto  a  contrastare  efficacemente  la
sentenza con la quale il giudice a quo  si  sia  espresso  in  ordine
all'insostenibilita' dell'accusa in giudizio. 
    In tal modo  si  compromette  la  possibilita'  che  il  pubblico
ministero chieda ad un ulteriore giudice di esaminare  le  risultanze
processuali  nella  totalita'  del  loro  significato  e  della  loro
consistenza e si opera una non ragionevole discriminazione tra quanto
previsto per i procedimenti che richiedono  l'udienza  preliminare  e
quanto previsto per i diversi procedimenti a citazione diretta,  dove
la domanda di  giudizio  del  pubblico  ministero  trova  l'immediato
riscontro della  fissazione  della  udienza  dibattimentale,  non  e'
minimamente esposta al rischio di essere prematuramente bloccata  nei
suoi atti di concreto e doveroso esercizio ed e' altresi'  garantita,
nell'attuale contesto normativo e grazie alle  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 26 e 320 del 2007, dalla possibilita' di un appello
avverso la decisione conclusiva del giudizio di primo grado. 
    L'intera sequenza di rimedi impugnatori sopra indicata viene  del
tutto paralizzata nel caso di procedimenti che  richiedano  l'udienza
preliminare; di quei procedimenti, cioe', che concernono i reati piu'
gravi ed in relazione ai quali appare ancora di certo  piu'  acuta  e
pressante la esigenza di un riesame del merito della imputazione, per
evitare che gli errori  compiuti  nella  verifica  della  domanda  di
giudizio producano conseguenze irreversibili e  impediscano  la piena
attuazione  del  diritto  positivo  e  l'adeguato   riscontro   degli
interessi della comunita' e della persona offesa. 
Sul  contrasto  con  i  principi   della   ragionevole   durata   dei
procedimenti e della parita' delle parti. 
    Ritiene la Corte che la nuova disciplina sia in  contrasto  anche
con  la  norma  costituzionale  che  impone  di  predisporre   quanto
necessario ad assicurare la ragionevole durata del procedimenti (art.
111, secondo comma, Cost.) e garantire  pari  possibilita'  operative
alle parti processuali, in ragione degli  obiettivi  coessenziali  al
rispettivo ruolo e in considerazione delle specifiche caratteristiche
delle singole fasi processuali. 
    La proponibilita' avverso la sentenza di non  luogo  a  procedere
del solo ricorso per cassazione, infatti, non  consente  al  pubblico
ministero (il quale non condivida la decisione del G.u.p. di bloccare
l'esercizio dell'azione penale) di tutelare, efficacemente e in tempi
congrui,  la  funzione  del  processo   penale,   che,   secondo   la
giurisprudenza della Corte  costituzionale,  e'  strumento  destinato
all'accertamento giudiziale dei  fatti  di  reato  e  delle  relative
responsabilita' (cfr. Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361). 
    Va sul punto condiviso il rilievo  del  p.g.m.,  contenuto  nella
memoria scritta presentata alla  presente  udienza,  secondo  cui  la
violazione dell'art. 111,  secondo  comma,  Cost.,  ascrivibile  alla
nuova formulazione dell'art. 428 c.p.p., e' duplice, palesandosi  sia
come vulnus arrecato al principio di  parita',  coram  iudice,  delle
parti (pubblica e privata) del processo; sia come vulnus arrecato  al
principio di ragionevole durata dei tempi di svolgimento del processo
medesimo. 
    Invero, e' difficile non ammettere che nei procedimenti in cui e'
prevista l'udienza preliminare - ossia nella totalita' dei casi,  per
quanto riguarda gli organi della giurisdizione  militare  (davanti  a
cui non trovano applicazione  le  disposizioni  del  Libro  VIII  del
codice di rito sul procedimento davanti al tribunale in  composizione
monocratica) -, si verifichi, a causa del riformato art. 428  c.p.p.,
un ingiustificato ed irragionevole «sbilanciamento»  delle  parti  in
relazione alle conseguenze del provvedimento conclusivo. 
    Infatti, mentre per l'imputato il piu' sfavorevole degli esiti e'
rappresentato dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice  naturale,
ossia un atto  meramente  interlocutorio,  per  l'accusa  l'eventuale
pronuncia ex  art.  425  c.p.p.  comporta  il  pressoche'  definitivo
«affossamento» delle  ragioni  pubblicistiche  sottese  all'esercizio
dell'azione  penale;  esercizio  -  si  badi  -  non  intrapreso  dal
requirente sulla base di una scelta discrezionale, il cui  fallimento
possa  essere  in  certa   misura   ascritto   a   sua   «imprudenza»
professionale,  ma  adottato  in  ossequio  a   un   preciso   dovere
costituzionalmente imposto. 
    Le condizioni paritarie, di cui parla il secondo comma  dell'art.
111 della Carta fondamentale, infatti, non  possono  non  significare
anche ragionevole  parita'  di  posizioni  davanti  al  provvedimento
conclusivo della fase, da valutare in un ottica prospettica  e  dando
il giusto significato alla non impugnabilita' del rinvio a  giudizio,
che e' misura di carattere interlocutorio e  non  preclude  in  alcun
modo che l'imputato possa far valere in seguito le sue doglianze  sul
merito del provvedimento che concluda il processo di primo grado. 
    Inoltre   vale   la   pena   di   rilevare,   per   inciso,   che
l'inappellabilita' delle sentenze di non  luogo  a  procedere  incide
negativamente anche sulla sfera giuridica  dell'imputato,  posto  che
nell'attuale  sistema  normativo  non  e'  consentito   al   pubblico
ministero di appellare le suddette  sentenze  neanche  nell'interesse
del  soggetto  sottoposto  a  processo  penale.  E   cio'   determina
un'ulteriore incongruita' del sistema, alla luce di  quanto  statuito
dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 85  del  2008Con
la sentenza n. 85 del 2008, la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge  20  febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento), nella  parte  in
cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura  penale,  esclude
che l'imputato possa appellare contro le sentenze di  proscioglimento
relative a reati diversi dalle contravvenzioni  punite  con  la  sola
ammenda o con  pena  alternativa,  fatta  eccezione  per  le  ipotesi
previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo  codice,  se  la  nuova
prova e' decisiva. Nel corpo della motivazione si e' rilevato che «la
categoria  delle  sentenze  di  proscioglimento  -  che  la   riforma
assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all'appello
dell'imputato - non  costituisce  un  genus  unitario,  ma  abbraccia
ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all'attitudine  lesiva  degli
interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco  di  decisioni,
ampiamente liberatorie - quelle pronunciate con le formule "il  fatto
non sussiste" e l' "imputato non lo ha commesso"  -  detta  categoria
comprende, difatti,  sentenze  che,  pur  non  applicando  una  pena,
comportano  -  in  diverse  forme  e  gradazioni  -  un   sostanziale
riconoscimento  della  responsabilita'  dell'imputato  o,   comunque,
l'attribuzione del fatto  all'imputato  medesimo.  Paradigmatiche  le
fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione
del reato  per  prescrizione  (nel  regime  anteriore  alla  legge  5
dicembre 2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di  circostanze
attenuanti; proscioglimento per cause di  non  punibilita'  legate  a
condotte o accadimenti post factum; proscioglimento  per  concessione
del perdono giudiziale; quest'ultimo, in particolare,  si  traduce  -
per  communis  opinio  -  in  una  vera  e  propria  affermazione  di
colpevolezza, non seguita dall'irrogazione della pena  (peraltro  con
effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto
comma, cod. pen.).»., che ha ripristinato la facolta' per  l'imputato
di appellare quelle sentenze  di  proscioglimento  dibattimentale  le
quali, pur non applicando una pena, comportino - in diverse  forme  e
gradazioni -  un  sostanziale  riconoscimento  della  responsabilita'
dell'imputato o,  comunque,  l'attribuzione  del  fatto  all'imputato
medesimo  (in  particolare,  il  proscioglimento  per  cause  di  non
punibilita' legate a condotte o accadimenti post factum). 
    L'anomalia  eliminata  dalla  sentenza  di  cui  sopra,  infatti,
continua a contrassegnare le  sentenze  di  non  luogo  a  procedere,
tendenzialmente   assoggettate   ad   uno   statuto    unitario    ed
indifferenziato di inappellabilita' e che possono essere emesse anche
per la sussistenza di cause sopravvenute di non punibilita' o per  la
sussistenza di cause di estinzione del reato (sono, infatti, precluse
solo nella marginale  ipotesi  in  cui  dalle  medesime  consegua  la
applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca). 
    La sostanziale inadeguatezza del nuovo strumento di  impugnazione
(ricorso per cassazione), infine, emerge non appena si consideri  che
esso, ancorche' contemplato dal sistema previgente, non  aveva  quasi
mai ricevuto applicazione,  in  quanto  poco  congeniale  alla  quasi
generalita' delle censure che venivano mosse  alla  sentenze  di  non
luogo a procedere e che vedevano nell'appello il  tipico  e  naturale
strumento di impiego e reazione. 
    Divenuta regola quella  che  era  l'eccezione,  non  ci  si  puo'
esimere dall'interrogarsi  circa  la  congruita'  costituzionale  del
mezzo rispetto al fine, che - come prima - non puo' che essere quello
di ottenere che venga rimosso il non condiviso ostacolo all'esercizio
dell'azione penale rappresentato dal proscioglimento  del  G.u.p.  ed
ottenere che la res iudicanda sia sottoposta  all'esame  del  giudice
del dibattimento. 
    Il novellato testo dell'ad. 428 c.p.p., inoltre, pur riconoscendo
la facolta' di ricorrere per cassazione anche  al  Procuratore  della
Repubblica [comma 1, lett. a)] e alla persona offesa costituita parte
civile (comma 2, seconda parte), tace sui provvedimenti assumibili da
parte della Corte suprema, limitandosi a precisare che questa «decide
(...) in camera di consiglio con  le  forme  previste  dall'ad.  127»
(comma 3). 
    Nel silenzio della legge, non sembra vi sia spazio per  spingersi
oltre quelli che, nel sistema quo  ante,  venivano  ritenuti  i  soli
possibili esiti del giudizio di  cassazione: 
        il rigetto dell'impugnazione, con la consequenziale  conferma
toutcourt della decisione; 
        la  rettifica  della  formula  terminativa  in   ipotesi   di
proscioglimento pronunciato dal G.u.p. con  una  causale  diversa  da
quella emergente dalla motivazione  (cfr.  Cass.  pen.,  Sez.  I,  13
dicembre 1991, Sassola, in Mass. Cass. Pen., 1992, fasc. 1, 77). 
        l'annullamento della sentenza impugnata. 
    Unanime era, fino all'entrata in vigore della  legge  n.  46  del
2006, l'opinione che escludeva la possibilita' per la  Corte  suprema
di emettere decreto ai sensi dell'art.  429  c.p.p.;  ma  altrettanto
deve ritenersi oggi, dal momento che appare francamente insostenibile
l'ipotesi che il giudice di legittimita' possa disporre il  rinvio  a
giudizio, provvedendo contestualmente alla formazione  del  fascicolo
per il dibattimento: oltre tutto, tale ultima  incombenza  va  svolta
dal giudice «nel contraddittorio delle parti», e cio' mal si attaglia
al rito camerale «puro» ex art. 127 C.p.p. stabilito per il  giudizio
di cassazione. 
    Quindi, tralasciando qui l'eventualita'  di  un  «ritocco»  della
causale del proscioglimento, l'unico esito configurabile in  caso  di
condivisione delle ragioni dell'impugnazione del p.m.  da  parte  del
supremo Collegio e' quello di un annullamento con rinvio al giudice a
quo: il quale, pur cambiato nella persona, potra' pur sempre adottare
una diversa  decisione  liberatoria,  a  sua  volta  ricorribile  per
cassazione  secondo  una  sequenza  che  potrebbe  -  in   teoria   -
prolungarsi quasi all'infinito. 
    Ma  se  grave  e'  la  ferita   cagionata   all'interesse   della
parte-accusa - che pero' e' sempre interesse dell'ordinamento  e  mai
del singolo p.m., che ha l'obbligo, ex art. 112 Cost., di  esercitare
l'azione penale - non meno grave e clamoroso e'  il  pregiudizio  che
subisce la regola, anch'essa costituzionalmente garantita (art.  111,
secondo  comma,  seconda  parte)  della  «ragionevole   durata»   del
processo. 
    Non a caso, proprio con riferimento alla modifica  dell'art.  428
c.p.p., nel messaggio del 20-1-2006, con cui il Capo ha rinviato alle
Camere il disegno di legge originario  sulla  inappellabilita'  delle
sentenze di proscioglimento (poi  trasformato  nella  legge  che,  in
parte qua,  in  questa  sede  si  contesta  sotto  il  profilo  della
legittimita' costituzionale), si legge: 
        «Un altro problema (...) e' quello che deriva dall'articolo 4
della legge, che modifica l'articolo  428  del  codice  di  procedura
penale, trasferendo dalla Corte d'appello alla  Corte  di  cassazione
l'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere. Ne  derivera'
non  soltanto  un  ulteriore  aumento  di  lavoro  per  la  Corte  di
cassazione, ma anche, in caso di mancata conferma della  sentenza  di
non luogo a procedere,  una  regressione  del  procedimento,  che  ne
allunghera' inevitabilmente i tempi di definizione». 
    Sicche' appare scontata ed  inevitabile  la  conclusione  che  la
nuova disciplina comprometta il principio  della  ragionevole  durata
del processo e che cio' faccia in  difetto  di  qualsivoglia  ragione
giustificativa. 
    Ne  deriva,  di  conseguenza,   il   ragionevole   dubbio   sulla
costituzionalita'  della  medesima,  posto  che  al  principio  della
ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme
procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non
sorrette da alcuna  logica  esistenza,  non  essendo  in  altro  modo
definibile la durata ragionevole del  processo  se  non  in  funzione
della ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso  e
ne determinano i tempi» (Corte Cost., sentenza n. 148 del  12  aprile
2005 (4 aprile 2005). 
Sul contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale. 
    L'esclusione dell'appello del p.m. avverso  le  sentenze  di  non
luogo a procedere appare, infine, contrastare  anche  con  il  canone
costituzionale sulla obbligatorieta' dell'azione penale. 
    La  giurisprudenza  costituzionale,  infatti,  ha  esplicitamente
riconosciuto  nel  potere  di  impugnazione  del   p.m.   una   delle
espressioni dell'obbligo di esercizio dell'azione  penale  consacrato
nell'articolo 112 Cost. ed affermato che non puo' ammettersi  che  la
normativa ordinaria sia congegnata in  modo  tale  da  vanificare  il
complessivo assolvimento delle funzioni  di  accusa  (sentenze  Corte
cost. n. 177/1971 e n. 98/1994). 
    L'importante principio affermato nelle citate sentenze,  inoltre,
non risulta essere stato completamente neutralizzato dalle successive
decisioni con  le  quali  il  Giudice  delle  leggi  ha  espresso  il
convincimento che non vi sia una diretta e generale correlazione  tra
potere di impugnazione  del  p.m.  e  poteri  inerenti  all'esercizio
dell'azione  penale  (cfr.  Corte  cost.,  ordinanze  nn.   421/2001,
347/2002 e 165/2003). 
    Le argomentazioni contenute in queste ultime decisioni,  infatti,
riguardano il diverso scenario in cui l'azione penale era gia'  stata
positivamente  esercitata  ed  aveva  altresi'  messo  capo  ad   una
pronuncia favorevole alle ragioni dell'accusa, posto che si  trattava
di verificare se e quanta ragionevolezza fosse insita nella norma che
impediva al p.m.  di  proporre  appello,  principale  e  incidentale,
contro le sentenze di condanna  emesse  a  conclusione  del  giudizio
abbreviato; cioe' nel contesto di un  rito  che  perseguiva  evidenti
obiettivi di semplificazione processuale ed  in  relazione  ai  quali
poteva considerarsi appagante un epilogo comunque coincidente con  le
essenziali finalita' perseguite dalla pubblica accusa. 
    Nel caso di specie, per contro, si registra la previsione  di  un
limite oggettivo che concerne in misura diretta ed immediata  proprio
l'atto di esercizio dell'azione penale,  che  non  ha  realizzato  il
divisato obiettivo del giudizio dibattimentale  ed  in  relazione  al
quale si preclude la possibilita' dell'appello. 
    Alla luce del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, in
altri termini, non si vede con  quale  coerenza  «costituzionale»  si
possa, per legge  ordinaria,  interdire  al  p.m.  di  richiedere  al
superiore giudice di merito una diversa valutazione  in  ordine  alla
non superfluita' del dibattimento. 
    E  cio'  soprattutto  ove  si  consideri   che   la   preclusione
all'appello concerne una sentenza di  carattere  processuale,  emessa
nell'ambito di un giudizio essenzialmente cartolare ed in cui non  ha
avuto modo di  esplicarsi  il  principio  del  contraddittorio  nella
formazione della prova. 
    E'  convincimento  della  Corte,  pertanto,  che  la   disciplina
predisposta   dal   nuovo   articolo   428   comporti   un    «salto»
logico-giuridico che non trova giustificazione  nel  vigente  assetto
dei valori costituzionali. 
    Viene rimossa, infatti, la ragionevole disciplina apprestata  dal
pregresso testo dell'articolo 428 c.p.p., caratterizzata dall'obbligo
dell'esercizio dell'azione penale e dalla facolta' di coltivare  tale
obbligo pur dopo la pronuncia di non luogo a  procedere  del  g.u.p.,
richiedendo alla Corte d'appello il rinvio  a  giudizio;  ed  al  suo
posto se ne introduce una che altera  la  intrinseca  coerenza  della
complessiva  normativa  e  sottrae  all'organo  di  accusa  uno   dei
fondamentali presidi di puntuale ed integrale attuazione dell'obbligo
di esercitare l'azione penale, impedendogli di richiedere al  giudice
superiore -  di  merito  -  la  rimozione  del  pregiudizio  arrecato
all'atto di esercizio  dell'azione  penale  e  la  emissione  di  una
decisione conforme alla pretesa punitiva e di  diretta  ed  immediata
estrinsecazione della medesima. 
(1) Con  la  sentenza  n.  26  del   2007,   la   Corte   ha   dichiarato
costituzionalmente illegittima - per contrasto con  il  principio  di
parita' delle parti - la rimozione del potere di appello del pubblico
ministero contro  le  sentenze  di  proscioglimento  pronunciate  nel
giudizio ordinario (rimozione sancita dall'art. 1 della legge  n.  46
del 2006,  tramite  sostituzione  dell'art.  593  cod.  proc.  pen.):
rilevando come l'asimmetria di poteri fra parte pubblica  e  imputato
che ne conseguiva - per il suo carattere  radicale,  generalizzato  e
unilaterale - non  potesse  trovare  adeguata  giustificazione  nelle
rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla
radice della riforma  (vale  a  dire:  l'asserita  impossibilita'  di
considerare  colpevole  «al  di  la'  di  ogni  ragionevole   dubbio»
l'imputato prosciolto in primo grado; l'esigenza di  dare  attuazione
alle previsioni di determinati atti internazionali; l'opportunita' di
evitare che la sentenza di proscioglimento, emessa da un giudice  che
- come quello di primo grado - ha  assistito  alla  formazione  della
prova nel contraddittorio fra le  parti,  venga  ribaltata  da  altro
giudice che - come quello di appello - basa invece la  sua  decisione
su una prova prevalentemente scritta). Con la  sentenza  n.  320  del
2007, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art.  2
della legge n. 46 del 2006, nella parte in  cui,  modificando  l'art.
443, comma 1, cod. proc. pen.,  esclude  che  il  pubblico  ministero
possa appellare  contro  le  sentenze  di  proscioglimento  emesse  a
seguito di giudizio abbreviato. Nella motivazione della  sentenza  la
Corte ha osservato che «vale evidentemente, anche  in  rapporto  alla
norma oggi censurata, quanto preliminarmente osservato  dalla  citata
sentenza n. 26 del 2007: e, cioe', che al di sotto dell'assimilazione
formale delle parti - "l'imputato e il pubblico ministero non possono
proporre appello contro le sentenze di  proscioglimento"»  (cosi'  il
novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) - detta norma racchiude
«"una dissimmetria radicale"». A differenza dell'imputato - il  quale
resta abilitato  ad  appellare  le  sentenze  che  affermino  la  sua
responsabilita' - il pubblico ministero  viene,  infatti,  totalmente
privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso
la pronuncia che disattenda in modo integrale  la  pretesa  punitiva.
Menomazione,   questa,   che   non    puo'    ritenersi    compensata
dall'ampliamento   dei   motivi   del   ricorso    per    cassazione,
parallelamente operato - peraltro a favore di  entrambe  le  parti  -
dall'art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006 (modificativo dell'art.
606, comma 1, cod. proc. pen.): giacche' - quale che sia  l'effettiva
portata dei nuovi e piu' ampi  casi  di  ricorso  -  il  rimedio  non
attinge comunque alla pienezza  del  riesame  di  merito,  consentito
dall' appello. 
(2) Con la sentenza n. 85 del 2008, la Corte costituzionale ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge  20  febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento), nella  parte  in
cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura  penale,  esclude
che l'imputato possa appellare contro le sentenze di  proscioglimento
relative a reati diversi dalle contravvenzioni  punite  con  la  sola
ammenda o con  pena  alternativa,  fatta  eccezione  per  le  ipotesi
previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo  codice,  se  la  nuova
prova e' decisiva. Nel corpo della motivazione si e' rilevato che «la
categoria  delle  sentenze  di  proscioglimento  -  che  la   riforma
assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all'appello
dell'imputato - non  costituisce  un  genus  unitario,  ma  abbraccia
ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all'attitudine  lesiva  degli
interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco  di  decisioni,
ampiamente liberatorie - quelle pronunciate con le formule "il  fatto
non sussiste" e l' "imputato non lo ha commesso"  -  detta  categoria
comprende, difatti,  sentenze  che,  pur  non  applicando  una  pena,
comportano  -  in  diverse  forme  e  gradazioni  -  un   sostanziale
riconoscimento  della  responsabilita'  dell'imputato  o,   comunque,
l'attribuzione del fatto  all'imputato  medesimo.  Paradigmatiche  le
fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione
del reato  per  prescrizione  (nel  regime  anteriore  alla  legge  5
dicembre 2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di  circostanze
attenuanti; proscioglimento per cause di  non  punibilita'  legate  a
condotte o accadimenti post factum; proscioglimento  per  concessione
del perdono giudiziale; quest'ultimo, in particolare,  si  traduce  -
per  communis  opinio  -  in  una  vera  e  propria  affermazione  di
colpevolezza, non seguita dall'irrogazione della pena  (peraltro  con
effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto
comma, cod. pen.).».